venerdì 31 maggio 2013

Ci sono cose che non si possono consolare, per tutto il resto c'è mastercard.

Penso di aver imparato che ad un certo momento bisogna imparare a piangere da soli. Non a "non piangere" ma a farlo nel buio della propria camera, nel sorriso di un caffè con un'amica, nel silenzio tra le battute di un film al cinema, sotto la doccia: l'amarezza dentro, sorriso sempre e la lacrima ogni tanto.
Penso di averlo imparato perchè consolare è lungo, dispendioso e difficile e spesso una telefonata consolatoria si chiude con te che sei ancora a pezzi e l'altra persona che ti dice di star su, adducendo magari ad uno di quei motivi che sai essere veri ma che non senti veri. è inutile affidare ad altri la propria consolazione se non si avrà il tempo o il modo di farla nascere (la consolazione) che, tra l'altro, spesso è podalica, spesso necessita di un cesareo, spesso provocherà un travaglio di ore, di pianti, urla, parolacce e sospiri.
Consolare è un'arte: il pennello dell'amore, il colore della pazienza, il paesaggio del coraggio, la luce della forza, la tela del sorriso, il tempo della notte.
A volte l'artista in questione è occupato e, badiamo bene, non è colpa sua. E allora è meglio piangere da soli a volte. Bisogna assolutamente imparare, è questione di sopravvivenza. Inutile cercare ovunque una mano... con l'altra prendi la tua e stringi forte, accarezza le dita. Sfiora il viso, asciuga le lacrime. Avresti dovuto farlo ugualmente da sola dopo quella telefonata!
La stanza buia è avvolgente, il caffè è piacevole, il film è ben fatto, la doccia è calda. Indossa l'abito giusto e tieni l'amarezza chiusa in borsa: ognuno ha le sue amarezze e non è il caso di farne un'affare di Stato perhè non tutti i "come stai" sono per chiedere il tuo stato d'animo... A volte siamo un po' inglesi: "Ehi, hi! How are you?".
Devi imparare a ridere lo stesso, a vivere lo stesso, a piangere lo stesso, anche se da sola, perchè spesso solo tu puoi entrarti dentro.

E poi "sorriso chiama sorriso".

martedì 28 maggio 2013

Le donne sarebbero uomini perfetti (sopratutto se sono amiche perfette). Una donna sa di cosa ha bisogno dal suo uomo e quando ne ha bisogno. Ci sorprende conoscerci così bene!
Un uomo non sarebbe una donna perfetta perchè la donna sa dare sempre più di quanto l'uomo abbia bisogno. Sa sempre sorprenderlo.

mercoledì 22 maggio 2013

Abachi

Una persona a me molto vicina mi ha parlato una volta paragonando le persone e la loro forza ad un abaco: a volte, nonostante siamo vulnerabili noi stessi, e quindi già privi di parecchie palline, dobbiamo supportare chi ci è accanto e privarcene ancora un po'... Accanto a noi ci sarà chi ce ne rifornirà a sua volta. Una lunga fila di abachi... Cooperazione, collaborazione tra chi si ama. 

mercoledì 15 maggio 2013

Il Vocabolario emotivo e gli omini dispettosi

In una lingua di una popolazione che non ricordo non esistono delle parole per definire diverse sfumature di blu: azzurro, turchese, celeste, blu notte... Dato che non c'è una parola per "chiamare" questi colori pare che loro non notino effettivamente la differenza tra celeste e blu. Per loro sono uguali.
Spesso se non abbiamo una parola per definire ciò che ci passa per la testa viviamo in una specie di stato di trans, come se vivessimo un mondo nostro, diverso dalla realtà, dove quella sensazione non esiste perchè non sappiamo definirla o perchè rifiutiamo quel concetto. Saremo pazzi, dite voi. Sì, effettivamente. L'uomo non è una macchina, non risponde ad un sistema superiore di regole e risposte predefinite, come Siri ad esempio, che molti conosceranno. Spesso viviamo dei blocchi e dei corti proprio perchè nella nostra testa siamo momentaneamente confusi, la negatività prende il sopravvento ed è come se fossimo ubriachi, ci sentiamo oppressi, non riusciamo nemmeno a respirare per quanto la confusione della testa spinge sul nostro corpo. Questo avviene perchè noi siamo, come spesso mi capita di dire, uno, nessuno e centomila.
Io sono io, con i miei capelli, il mio viso, la mie mani, il mio modo di essere.
Io sono nessuno per molti e in molti casi.
Io sono centomila, sono testa, anima, desideri, comprensione di ciò che non posso avere, comprensione di ciò che potrei avere, comprensione di come potrei averlo, comprensione dei miei limiti nel comportarmi in un certo modo per avere quel qualcosa che quindi, a differenza magari di altri, non potrò avere. E ancora, sono ciò che non riesco a immaginare, ciò che non riesco a capire, ciò che per me è giusto, ciò che è facile e mi fa stare subito bene.
È normale, si sa, che tutte queste persone che sono strette nella mia bassa statura, ognuna portatrice di un "interesse", ogni tanto si pestino un piede e litighino lasciandomi nell'incertezza di come muovermi e di cosa fare. Sono lì, immobile, confusa. Qualcuno prima o poi vince e, dato che siamo animali pensanti (ed è questo il problema: il grande potere e la grande malattia dell'uomo), vince solitamente chi può sbloccare la situazione lasciando il più possibile la sfera sentimentale larga... Perchè la sfera sentimentale è come se fosse la Cina, "se si incazzano quelli, che son tanti, so' cazzi".
Il discorso è lo stato di confusione nel quale versiamo anche dopo. Possibile che abbiamo potuto essere così Jeckyll, pieno di tutte le sensazioni ed emozioni, buone e meno, e così Hide, così parziale ed egoista... sempre io, solo io? Jeckyll non riesce a capire e perdonare Hide, in un certo senso, a dargli un nome, e se non riesce a concepire che Hide è lui ma è anche Una parte di lui, Jeckyll perde la testa. Provate a far capire a quella popolazione che quel blu che vedono è blu ma non è proprio blu... Mah. Probabilmente perderanno la bussola anche loro. Manca loro il vocabolario... Ecco, dobbiamo munirci di un vocabolario emotivo. Pensiamoci: la maggior parte delle peggiori litigate della nostra vita avvengono perchè tu capisci e urli bianco e io nero, come le personcine interiori di cui sopra. Se ci sapessimo meglio capire, se sapessimo iniziare a distinguere gli interessi, che son tanti, dal bisogno, che è uno e che è quello che fa vibrare la sfera emotiva, ci sapremmo anche meglio spiegare e, senza arrivare alle maniere forti contro noi stessi (maniere forti tra tutti, cioè, quegli omini dispettosi e parziali) e contro gli altri... capiremmo noi stessi, da soli, la differenza, imparando anche a modulare gli scontri tra punti di vista e interessi diversi perchè alla base ci deve essere il bisogno... Magari qualche omino si metterebbe anche da solo da parte lasciandoci un po' più di spazio per la pace.

giovedì 9 maggio 2013

Il problema è che io non sono d'accordo che la gente deve imparare a bastare a sè stessa. Io adoro le persone, adoro chi mi può capire perchè è uguale a me (se concepissimo di essere tutti uguali sarebbe forse un mondo migliore, comunque...). Mi piace salvare esattamente quanto desidero essere salvata.  Dov'è il problema? Che dovrei imparare anche ciò con cui non mi trovo d'accordo.

lunedì 6 maggio 2013

I binari verso la felicità


Perseguire la propria felicità è difficile... figuriamoci perseguire quella di chi amiamo. Se non sappiamo come rendere felici noi stessi com'è che a volte pensiamo di sapere come rendere felici gli altri? "Mistero della fede" potrei dire per togliermi dall'imbarazzo del rispondere... In realtà non lo so ancora, ci arriverò spero in futuro... Ma qualcosa, di più pratico, però l'ho imparata.

Nell'ideale del perseguimento della felicità di chi amiamo bisognerebbe muoversi con metodo e cautela, muoversi cioè per la moderazione delle parti, per il senso del dovere (che spesso sfugge di mano anche se ne percepiamo l’importanza) e nel rispetto. Quando il treno corre servono i binari per non farlo deragliare e, magari, non fargli perdere il carico...

Il rispetto comprende, tra le tante cose, la resa dei propri principi a favore di quelli dell’altro (“I panni”) e nel “tatto”, tanto temuto e tanto odiato per chi “non si sente capace”. Inutile citare la fiducia in noi stessi, nel nostro spirito d’osservazione  e nel nostro essere “giusti” o la comprensione del nostro sforzo dall'altra parte poiché i “sì però…”, sono convinta, si sprecherebbero. A tal proposito l’unica cosa da dire è che focalizzarsi sul rispetto dell’altro (ciò significa anche nel rispetto dei suoi tempi come dei suoi sentimenti che sono anche paure, ansie, fantasmi che non noi vediamo ma dei quali possiamo percepire la presenza nell'altro)  è tanto difficile quanto importante quindi c’è poco altro da fare se non sforzarsi e, possibilmente/assolutamente, riuscire.  

La moderazione, tendere cioè alla conciliazione, con la corrispondente resa dei propri personali pareri in merito alla questione, è importante per perseguire la felicità altrui (anche se non corrisponde proprio alla nostra) e questo perché se c’è da far questione vuol dire che c’è un interesse in ballo e se questo interesse non è materiale ma emotivo , un affetto di qualsiasi tipo, dobbiamo preservarlo, in Ogni modo. Potremo non essere spinti noi verso quell'affetto ma ciò non ci giustifica nel tentativo (consapevole o meno) di aumentare l’astio per portare l’altro al nostro distacco.
Di fronte al terzo saremo sempre pronti a difendere a spada tratta il nostro amico, fidanzato ma in privato  sarà d’obbligo anche minimizzare, conciliare ed essere ottimisti: moderare chi ci è accanto per far scemare una contesa che gli fa male e per congiungere non chi ha ragione e chi ha torto ma chi condivide un rapporto affettivo, che è la base. È bene essere sempre vicino all'altro ma mai cospirare per la risoluzione con il terzo a meno che non si sia certi che non si tradisca in questo modo la fiducia che il nostro affetto ci ha riservato: al primo posto c’è sempre lui.
Se l’astio (che non è pigrizia e su questa distinzione, ammetto, mi son spesso divertita) è troppo forte non dobbiamo aver paura di gettare le armi, di fare un sorriso e dire “se è questo che vuoi io sono accanto a te”, di fronte al mondo non saremo stati mai “lontani” ma ora il tentativo di moderazione privata è concluso ponendoci nello “scarico delle nostre responsabilità”. Mi è capitato spesso di andare contro questa regola assumendomene totalmente la responsabilità e sono consapevole che il mio successo sia derivato, oltre che dalla mia cocciutaggine e perseveranza, da una discreta botta di fortuna e dalla pazienza, l’intelligenza e la comprensione di chi (tutti) mi sono trovata davanti. 
Dobbiamo essere un po' come dei binari: se la rabbia, la tristezza o la rassegnazione portano l'altro a deragliare cerchiamo di portare l'altro con calma sui binari giusti. In questo caso sarà il caso di dargli spazio quando sarà aggressivo, essere amorevoli quando lo è con noi e quindi quando dimostra di volere amorevolezza (anche se ciò dura pochi secondi prima di un nuovo isolamento, forse pochi secondi avranno fatto già la differenza), essere pronti e comprensivi negli sfoghi e nei silenzi.

Per il senso del dovere, che sia da considerarsi tale, bisogna lottare molto... quante volte sentiamo che l'altro vuole mollare tutto? Il dovere deve essere congiunto, mai disgiunto, dal concetto di realizzazione personale, è vero, ma qualora ci si renda conto che un dovere non porti alla felicità siamo obbligati, verso l’altra persona, a cercare di sacrificare un po’ noi stessi per renderlo più “appetibile” o di mutare lievemente, considerevolmente o totalmente il dovere in questione al fine di renderlo il più vicino possibile alla serenità se non alla felicità dell’altro: compiere un dovere è importante tanto quanto lo è la serenità quotidiana nel compierlo.
La visione di “dovere” non è uguale per tutti e per questo mi sono spesso prodigata nel cercare una specie di “ius comune”… Qualche dovere imprescindibile mi è venuto in mente, come immagino a voi, ma probabilmente non raggiungerei mai una percentuale abbastanza alta di assensi quindi sono costretta a rassegnarmi al più volte da me odiato detto “il mondo è bello perché è vario”, nel bene e nel male, aggiungerei.

N.B. Non esiste un vero e proprio manuale su come comportarsi con il mondo e questo blog certo non lo sarà, ma esiste la “presa di coscienza” di certe questioni in seguito (quasi mai prima) agli errori e questa non è altro che la mia presa di coscienza sulla questione: l’importante per me è la mia felicità quanto (se non più) la felicità di chi mi sta accanto che, per la mia superbia, Deve essere felice nel mondo e nel Proprio mondo, con il mio aiuto e con le Nostre prese di coscienza che, forse, serviranno non solo nel caso si voglia perseguire la felicità dell'altro. 





venerdì 3 maggio 2013

#Racconto2 - Lei si uccise

Quella sera eravamo tornati tardi. Il pensiero di quel giorno mi faceva battere il cuore forte. Fu un attimo, potei pensare persino che mentre mi mettevo la crema per andare a dormire ebbi “un presentimento”. Fu un attimo e lui non c’era più.
Non me lo dissero, fu un fuggi fuggi e poi “non ha sofferto”. “Come fate a saperlo?”: questo urlai. Come facevano a saperlo? Io volevo essere lì, accanto a lui, avrei voluto sentire quel dolore, sentirlo. L’altro pensiero fu: avrei voluto dirgli tante cose… Sapeva che lo amavo più di me stessa? Più della mia stessa vita? È questo il punto. Lui sapeva vedermi dentro, lui ora saprebbe capirmi. Gli altri ci provarono ma sapevano di non poterci riuscire. Entravano nella mia stanza buia e vendevano solo il mio dolore, ne avevano paura, lo guardavano e andavano via. Non sapevano che dire, avevano paura di ferirmi, sapevano di non poter essere d’aiuto nemmeno se ce l’avessero messa tutta. Sapevano che volevo morire. Piangevo, urlavo. Mia madre avrebbe voluto abbracciarmi la prima volta che mi sentì urlare a quel modo ma la spinsi via e strillai più forte. Lei andò nell'altra stanza, chiuse la porta e pianse anche lei. Sapeva che volevo morire. Pensavo solo a lui e a quel momento in cui lui era andato via da me, “perché mi hai lasciata qui da sola? Cosa farò?”, non lo sapevo, così non feci niente per un po’. Non mangia, non bevvi, non mi alzai, non parlai, non aprii nemmeno gli occhi per un po’ di giorni. Non tanti in realtà, non si poteva andare avanti così, i miei lo sapevano. Così un giorno venne un'ambulanza e fui strappata via da quel buio. Non capivano che volevo morire.
Lui era nella mia mente, sempre, continuamente, lo vedevo mentre mi abbracciava, mi baciava, mentre facevamo l’amore e mentre moriva, io lo vedevo. Sentivo la sua voce ma non capivo cosa mi stava dicendo. Chiamai mille volte al suo telefono… gli chiedevo sempre un parere su tutto, lui ed i suoi pensieri erano essenziali. Non mi rispose mai nessuno, i suoi genitori capirono che spegnarlo sarebbe stato crudele (a volte, forse, l’hanno anche ricaricato per permettermi quel gesto) e rispondermi con il loro dolore sarebbe stato peggio.
Sognavo che mi guardava con odio ed indifferenza, che io urlavo ai suoi piedi chiedendogli perché stesse trattando così me e il mio dolore. Lui non mi rispondeva e mi guardava con ancora più cattiveria, le sue mani non mi toccavano, mi stringevano fredde e arrabbiate, mi spingevano via con parole veementi, anche se non so quali. Le mie braccia erano pesanti, il petto si schiacciava. Era una sensazione costante, era come se quello che c’era dentro di me volesse andare via, e lasciarmi vuota, come un pallone sgonfio.

Pensai che in questo mondo c’è tanta ingiustizia. Tutti dicono che sanno cos’è l’Amore, che tutti hanno detto almeno una volta “sei la mia vita, non ti lascerò mai”. Allora perchè non capiscono? Mentivano forse quando l’hanno detto.

Perché si dicono tutti così comprensivi e poi parlano solo di vita quando io voglio morire? Perché imporre la vita a chi è già morto? Di me restano solo i miei organi che funzionano, il mio corpo sano. Ma questa è vita? Un cuore che batte? Il mio batte forte, ma solo se penso a lui e solo perché vorrebbe esplodere.
In questo diamine di pianeta hai il diritto di fare tutto. Puoi fustigarti, sbagliare, vivere miserevolmente, drogarti, tagliarti, mangiare fino a scoppiare, spendere più di quanto hai ,fumare … Perché ti permettono tutto questo e se vuoi morire non puoi nemmeno dirlo? “Voglio morire!”, “no, non dirlo, non dire così, il dolore passerà”. Il mio dolore non passerà.

In seguito capii che il mio non era dolore, era che la vita era andata già via da me, quella sera, con lui, e ora reclamava che anche il resto di me scomparisse, l’aria era uscita fuori da me. Volevo diventare trasparente, dissolvermi nell'atmosfera. Pensai ad un brano di Pirandello, “di sera, un geranio”… mi domandai se là dove volevo andare mi sarebbe servito conoscerla, capii che era una domanda stupida... non avrei voluto vagare come quel personaggio dalla barba rossiccia, avrei voluto solo non esistere più. O andare da lui, abbracciarlo, avevo bisogno di lui. Dov'era ora il suo corpo che tante volte avevo amato? Scossi la testa, non volli farlo sapere a me stessa e scacciai via la domanda. Il suo corpo, se l’avessi visto senza vita, sarebbe stato mio, l’avrei stretto e non l’avrei più lasciato, sarei morta lì, piangendo su di lui e aspettando che il mio corpo fosse troppo stanco per trattenere la vita.


Mi dissero di pensare alla mia vita prima di lui, non risposi. A uno che ti dice una cosa del genere è inutile spiegare che un prima non esiste, che “prima” non esistevo, sono esistita con lui e ora non esistevo più.

Mi dissero che esageravo e che non potevo fare l’inguaribile romantica. Lui non c'era più, era andato, finito, sparito, dovevo pensare a me. Non dico cosa pensai, sarebbe troppo scabroso. Più scabroso che parlare di morte.
Mi dissero di pensare a chi sta peggio. Lo stesso: non risposi. Il corpo non potrà mai stare peggio dell’anima. Il dolore fisico non è niente in confronto. Anche se il dolore che lui provò in quel momento lo catalogai come la peggiore delle atrocità, anche se fosse durato un secondo. Avete mai provato a pensare a quanto scorrono lenti i secondi? Provate solo a tenere uno spillo sul dito per un secondo, sarà lungo, fidatevi.

È difficile morire. Davvero, l’aveva capito e dimostrato Hitchcock una volta in un film, non ne ricordavo più il titolo. Del resto, non sarei potuta andare da un dottore e dire “sto male, voglio morire”. I dottori curano il corpo. In farmacia o al supermercato, dallo psicologo o da uno spacciatore… chiunque non mi avrebbe venduto nulla per questo, nessuno mi avrebbe fatta morire. E in più non puoi decidere di nascere come non puoi decidere di morire, non puoi dire “sono stanca, muoio”. A volte ho pensato di essere pazza, molti l’hanno pensato molto prima e molto più intensamente di me.


Così un giorno, dopo aver pensato a tutti i modi per strapparmi la sanezza di dosso, pensai alla soluzione più facile e meno dolorosa (chissà perché mi interessava ancora non far soffrire il mio corpo nonostante volessi ucciderlo): pillole, tante. Non funzionò, ma la sensazione di essere quasi libera fu bellissima. Di modi ne provai altri.

Arrivai alla conclusione che io dovessi soffrire. Lui lo voleva, era giusto condividere anche questo, per questo mi trattava male in sogno, io ero viva e non dovevo. “Tu sei la mia vita”, mi diceva, ora la vita era andata vita da lui e io ero qui. Com’era possibile? Dovevo andare.
Avevo paura ma del resto anche lui ne aveva avuta. Lasciai passare del tempo e poi andai alla finestra. Fantastico che abbiate già capito cosa ci andai a fare. Non feci come nei film, non temporeggiai: guardai di sotto e mi buttai. Niente lettera a parenti e amici, niente pizzino, solo una stanza vuota e sul computer un file: “testamento biologico”. Stavo andando via senza una parola perché la mancanza di vita non mi permetteva di parlare e ragionare ma qualcosa di quel mio corpo sano doveva servire a qualcuno che, a differenza mia, voleva vivere ed era il corpo ad impedirlo, non l’anima: fu l'unico pensiero di quei lunghi giorni che mi legò al mondo.
Fu brutto, tremendo… Forse a 10 metri da terra volli tornare indietro ma lo vidi e corsi ad abbracciarlo. Ora ero in pace e fu la scelta più facile, perché “la cosa più difficile nella vita è vivere”. Non pensai mai troppo a chi lasciai. A chi chiamava me “vita” e che , secondo logica, avrebbe dovuto fare lo stesso salto.

Anni dopo raccontarono la mia storia e una signora disse “la conoscevo, le successe quella disgrazia, non resse lei. Lei si uccise”.



Prigionia di lacrime, Roberto Ferri, 1978

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 "Mi hai incantato con un potere al quale non posso resistere; eppure potevo resistere fino a quando ti vidi; e perfino dopo averti visto ho tentato spesso "di ragionare contro le ragioni del mio amore". Non posso farlo più - il dolore sarebbe troppo grande. Il mio amore è egoista. Non posso respirare senza di te." John Keats : 
Keats scrive a Funny una bellissima lettera d'amore