venerdì 3 maggio 2013

#Racconto2 - Lei si uccise

Quella sera eravamo tornati tardi. Il pensiero di quel giorno mi faceva battere il cuore forte. Fu un attimo, potei pensare persino che mentre mi mettevo la crema per andare a dormire ebbi “un presentimento”. Fu un attimo e lui non c’era più.
Non me lo dissero, fu un fuggi fuggi e poi “non ha sofferto”. “Come fate a saperlo?”: questo urlai. Come facevano a saperlo? Io volevo essere lì, accanto a lui, avrei voluto sentire quel dolore, sentirlo. L’altro pensiero fu: avrei voluto dirgli tante cose… Sapeva che lo amavo più di me stessa? Più della mia stessa vita? È questo il punto. Lui sapeva vedermi dentro, lui ora saprebbe capirmi. Gli altri ci provarono ma sapevano di non poterci riuscire. Entravano nella mia stanza buia e vendevano solo il mio dolore, ne avevano paura, lo guardavano e andavano via. Non sapevano che dire, avevano paura di ferirmi, sapevano di non poter essere d’aiuto nemmeno se ce l’avessero messa tutta. Sapevano che volevo morire. Piangevo, urlavo. Mia madre avrebbe voluto abbracciarmi la prima volta che mi sentì urlare a quel modo ma la spinsi via e strillai più forte. Lei andò nell'altra stanza, chiuse la porta e pianse anche lei. Sapeva che volevo morire. Pensavo solo a lui e a quel momento in cui lui era andato via da me, “perché mi hai lasciata qui da sola? Cosa farò?”, non lo sapevo, così non feci niente per un po’. Non mangia, non bevvi, non mi alzai, non parlai, non aprii nemmeno gli occhi per un po’ di giorni. Non tanti in realtà, non si poteva andare avanti così, i miei lo sapevano. Così un giorno venne un'ambulanza e fui strappata via da quel buio. Non capivano che volevo morire.
Lui era nella mia mente, sempre, continuamente, lo vedevo mentre mi abbracciava, mi baciava, mentre facevamo l’amore e mentre moriva, io lo vedevo. Sentivo la sua voce ma non capivo cosa mi stava dicendo. Chiamai mille volte al suo telefono… gli chiedevo sempre un parere su tutto, lui ed i suoi pensieri erano essenziali. Non mi rispose mai nessuno, i suoi genitori capirono che spegnarlo sarebbe stato crudele (a volte, forse, l’hanno anche ricaricato per permettermi quel gesto) e rispondermi con il loro dolore sarebbe stato peggio.
Sognavo che mi guardava con odio ed indifferenza, che io urlavo ai suoi piedi chiedendogli perché stesse trattando così me e il mio dolore. Lui non mi rispondeva e mi guardava con ancora più cattiveria, le sue mani non mi toccavano, mi stringevano fredde e arrabbiate, mi spingevano via con parole veementi, anche se non so quali. Le mie braccia erano pesanti, il petto si schiacciava. Era una sensazione costante, era come se quello che c’era dentro di me volesse andare via, e lasciarmi vuota, come un pallone sgonfio.

Pensai che in questo mondo c’è tanta ingiustizia. Tutti dicono che sanno cos’è l’Amore, che tutti hanno detto almeno una volta “sei la mia vita, non ti lascerò mai”. Allora perchè non capiscono? Mentivano forse quando l’hanno detto.

Perché si dicono tutti così comprensivi e poi parlano solo di vita quando io voglio morire? Perché imporre la vita a chi è già morto? Di me restano solo i miei organi che funzionano, il mio corpo sano. Ma questa è vita? Un cuore che batte? Il mio batte forte, ma solo se penso a lui e solo perché vorrebbe esplodere.
In questo diamine di pianeta hai il diritto di fare tutto. Puoi fustigarti, sbagliare, vivere miserevolmente, drogarti, tagliarti, mangiare fino a scoppiare, spendere più di quanto hai ,fumare … Perché ti permettono tutto questo e se vuoi morire non puoi nemmeno dirlo? “Voglio morire!”, “no, non dirlo, non dire così, il dolore passerà”. Il mio dolore non passerà.

In seguito capii che il mio non era dolore, era che la vita era andata già via da me, quella sera, con lui, e ora reclamava che anche il resto di me scomparisse, l’aria era uscita fuori da me. Volevo diventare trasparente, dissolvermi nell'atmosfera. Pensai ad un brano di Pirandello, “di sera, un geranio”… mi domandai se là dove volevo andare mi sarebbe servito conoscerla, capii che era una domanda stupida... non avrei voluto vagare come quel personaggio dalla barba rossiccia, avrei voluto solo non esistere più. O andare da lui, abbracciarlo, avevo bisogno di lui. Dov'era ora il suo corpo che tante volte avevo amato? Scossi la testa, non volli farlo sapere a me stessa e scacciai via la domanda. Il suo corpo, se l’avessi visto senza vita, sarebbe stato mio, l’avrei stretto e non l’avrei più lasciato, sarei morta lì, piangendo su di lui e aspettando che il mio corpo fosse troppo stanco per trattenere la vita.


Mi dissero di pensare alla mia vita prima di lui, non risposi. A uno che ti dice una cosa del genere è inutile spiegare che un prima non esiste, che “prima” non esistevo, sono esistita con lui e ora non esistevo più.

Mi dissero che esageravo e che non potevo fare l’inguaribile romantica. Lui non c'era più, era andato, finito, sparito, dovevo pensare a me. Non dico cosa pensai, sarebbe troppo scabroso. Più scabroso che parlare di morte.
Mi dissero di pensare a chi sta peggio. Lo stesso: non risposi. Il corpo non potrà mai stare peggio dell’anima. Il dolore fisico non è niente in confronto. Anche se il dolore che lui provò in quel momento lo catalogai come la peggiore delle atrocità, anche se fosse durato un secondo. Avete mai provato a pensare a quanto scorrono lenti i secondi? Provate solo a tenere uno spillo sul dito per un secondo, sarà lungo, fidatevi.

È difficile morire. Davvero, l’aveva capito e dimostrato Hitchcock una volta in un film, non ne ricordavo più il titolo. Del resto, non sarei potuta andare da un dottore e dire “sto male, voglio morire”. I dottori curano il corpo. In farmacia o al supermercato, dallo psicologo o da uno spacciatore… chiunque non mi avrebbe venduto nulla per questo, nessuno mi avrebbe fatta morire. E in più non puoi decidere di nascere come non puoi decidere di morire, non puoi dire “sono stanca, muoio”. A volte ho pensato di essere pazza, molti l’hanno pensato molto prima e molto più intensamente di me.


Così un giorno, dopo aver pensato a tutti i modi per strapparmi la sanezza di dosso, pensai alla soluzione più facile e meno dolorosa (chissà perché mi interessava ancora non far soffrire il mio corpo nonostante volessi ucciderlo): pillole, tante. Non funzionò, ma la sensazione di essere quasi libera fu bellissima. Di modi ne provai altri.

Arrivai alla conclusione che io dovessi soffrire. Lui lo voleva, era giusto condividere anche questo, per questo mi trattava male in sogno, io ero viva e non dovevo. “Tu sei la mia vita”, mi diceva, ora la vita era andata vita da lui e io ero qui. Com’era possibile? Dovevo andare.
Avevo paura ma del resto anche lui ne aveva avuta. Lasciai passare del tempo e poi andai alla finestra. Fantastico che abbiate già capito cosa ci andai a fare. Non feci come nei film, non temporeggiai: guardai di sotto e mi buttai. Niente lettera a parenti e amici, niente pizzino, solo una stanza vuota e sul computer un file: “testamento biologico”. Stavo andando via senza una parola perché la mancanza di vita non mi permetteva di parlare e ragionare ma qualcosa di quel mio corpo sano doveva servire a qualcuno che, a differenza mia, voleva vivere ed era il corpo ad impedirlo, non l’anima: fu l'unico pensiero di quei lunghi giorni che mi legò al mondo.
Fu brutto, tremendo… Forse a 10 metri da terra volli tornare indietro ma lo vidi e corsi ad abbracciarlo. Ora ero in pace e fu la scelta più facile, perché “la cosa più difficile nella vita è vivere”. Non pensai mai troppo a chi lasciai. A chi chiamava me “vita” e che , secondo logica, avrebbe dovuto fare lo stesso salto.

Anni dopo raccontarono la mia storia e una signora disse “la conoscevo, le successe quella disgrazia, non resse lei. Lei si uccise”.



Prigionia di lacrime, Roberto Ferri, 1978

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 "Mi hai incantato con un potere al quale non posso resistere; eppure potevo resistere fino a quando ti vidi; e perfino dopo averti visto ho tentato spesso "di ragionare contro le ragioni del mio amore". Non posso farlo più - il dolore sarebbe troppo grande. Il mio amore è egoista. Non posso respirare senza di te." John Keats : 
Keats scrive a Funny una bellissima lettera d'amore

3 commenti:

  1. chi è il vincitore di tutto ciò?
    è la prima domanda che sorge spontanea.
    Sorge difficile pensare come Lui desiderasse da quel posto in cui si trovava la morte anche di Lei. Il brano fa riflettere su un tema importante: può l'Amore unire a tal punto da portare all'annientamento della morte? Se lei sceglie la morte per raggiungere l'Amore, automaticamente (e paradossalmente) sconfigge il tempo della prima per far vincere il secondo che però tutto sembra fuorchè un trionfo.
    Siamo di fronte ad una disputa senza tempo, se esiste qualcosa di più forte della morte, unica e sola "entità"(?)in grado di portar via una vita. Sembra come se Lei sostituisce l'Amore alla morte. Ma, come detto in precedenza, sorge difficile pensare che Lui volesse proprio questo da Lei.
    Un brano di raffinata fattura che invita a numerose riflessioni e che canta la "bellezza" di una relazione che finisce senza volere di alcuno. Un ritratto dell'anima che non cessa di Amare ma che cessa di vivere.
    (in ultimo, secondo il mio modesto parere, la vita può valere per l'Amore, ma l'Amore non vale una vita).

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  2. dipende pur sempre dalla definizione di vita: a mio parere una vita è dettata dallo scorrere delle emozioni. una vita senza emozioni non è più degna di tale nome, è sopravvivenza. la ragazza del racconto aveva smesso di vivere con lui, non si è tolta la vita, ha smesso di sopravvivere ogni giorno; giorno in cui, come il giorno precedente, sperava con tutta se stessa che fosse l'ultimo per mettere fine al suo "nulla"...perchè il dolore si supera, ma il vuoto, il nulla che l'Amore lascia, secondo me no.

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  3. Bertrand Russell diceva: "Temere l'amore è temere la vita, e chi ha paura della vita è già morto per tre quarti."

    La materia prima della Vita stessa è l'Amore. Il sentimento è parte integrante dell'uomo. Il dolore, la felicità, ogni emozione capace di regalarci un sorriso o strapparci una lacrima sono intrinseci all'essenza dell'uomo stesso.

    L'amore è un concetto talmente grande che credo sia impossibile descrivere, e tantomeno raccontare con il mero uso di parole.

    Nulla a mio parere è più soggettivo dell'amore. Ognuno sente di amare a modo proprio. Amare è vivere, ed ognuno vive una vita propria, unica e diversa da ogni altro.

    Uccidersi per amore. Beh, sarebbe come dire che la morte è più forte dell'amore, e dunque della vita. Nel momento in cui però ci viene a mancare l'amore, non sentiamo di vivere più, e dunque è come se fossimo già morti. E' davvero difficile, complicato. Ti sembra di non potercela fare, di non riuscire ad andare avanti, che l'andare avanti sarà una mera angoscia e ricordo del passato, senza alcun granello di speranza per il futuro. Non c'è nulla che si possa fare, ed è giusto che sia così. Quando si è davvero innamorati non si riesce neanche a proiettarsi in una vita che verrà senza quell'amore. Non riesci nemmeno ad immaginarlo. Ti senti solo, solo tu e te stesso. E non è vero che il tempo aiuta, non è assolutamente vero, anzi...potrebbe farti fare un passo in avanti e due in dietro. Per esperienza personale opterei nel dire che il tempo aiuta, se ci si aiuta.
    Il come non saprei dirlo, ognuno penso debba trovare il modo da sè.

    L'amore e' come la pioggia, arriva all'improvviso, allaga, ti bagna, rovina e ti fa correre per il riparo, se ne va e a volte lascia danni ma senza non si vive.

    Bisogna sempre cercare di vivere, nonostante tutto. Cercare di amare ancora, e poi ancora, sempre di più...mai fermarsi, mai arrendersi. E' l'essenza della vita, è tutto. E' il motivo per il quale siamo quel che siamo. La coscienza d'amare e di essere amati regalano a noi stessi, e alla nostra vita tale ricchezza che nient'altro è capace di porgerci.

    Quindi credo che la signora abbia ragione quando dice: "[...]non resse lei. Lei si uccise”. Bisogna esser forti. Si perde un amore, ma non la volgia di amare ancora, e chi lo sa, forse questa volta ancora di più.

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